Scrive Anna Lambertini, nel suo Urban Beauty! che “l’attivazione della funzione di gioco nella riconfigurazione di paesaggi urbani e il ricorso ai codici dell’estetica ludica come veicolo di riappropriazione condivisa di spazi pubblici costituiscono consolidati temi di sperimentazione per chiunque lavori alla reinvenzione della città contemporanea, interpretata come territorio (vivente) etico ed estetico.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
L’attitudine a immettersi negli spazi aperti del quotidiano materiali, colori, forme, figure e sollecitazioni d’uso tradizionalmente associati alle aree gioco vere e proprie è alla base di un consistente repertorio di progetti recenti e di azioni creative diversive sui luoghi pubblici.” Facendo riferimento a collettivi di street artist “impegnati a tracciare mappe interattive ludico-geografiche: a prendere spessore, è facile notare, è una progressiva, contagiosa e benefica espansione del campo ludico nei diversi tempi e nei vari luoghi delle città europee. La qual cosa può corrispondere sostanzialmente a due questioni emergenti della cultura urbana contemporanea. Da una parte, la ricerca di una dimensione di vita estetica democratica, diffusa, accessibile a tutti, non elitaria, come elemento costitutivo della città post-post-moderna, considerando che, come sottolineava Huizinga, il gioco è azione vitale, oltre che fenomeno culturale, che tende a essere bello ed è ricco delle due qualità più nobili che l’uomo possa riconoscere nelle cose ed esprimere egli stesso: ritmo e armonia. Dall’altra, la spinta verso la formazione di una coscienza critica collettiva e l’innesco di meccanismi di coesione sociale, in un passaggio delicato dei nostri tempi di “crisi” e di relazioni “liquide”: nella tensione ludica risiede infatti un contenuto etico e, ancora citando Huizinga, la comunità che gioca ha una tendenza generale a farsi duratura.”
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
L’esperienza di ridisegnare un paesaggio con il gioco ci si è posta durante una collettiva di artisti a cui siamo stati invitati nel settembre del 2013 dal titolo Terramater. Aderire come architetti, in un esperienza che raccoglieva un grande numero di artisti, è stata una sfida personale e professionale; dove collocarci come figure dalla forte connotazione tecnica? Il tema della terra, del rapporto con il suolo, ci ha spinti ad esplorare la nostra vocazione al disegno urbano, e allo socialità degli spazi, a lasciare che i nostri progetti siano colonizzati dalle persone.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
“Lavorare sul tema della terra è un processo di autoriflessione. Terra è la materia o il pianeta? E’ lo spazio che ci circonda o l’insieme delle cose che lo abitano? La moltitudine di stimoli, panorami che questo elemento evoca in ognuno di noi può creare un senso di falsa sicurezza. Ciò che sembra essere così scontato, il “tappeto” dove posiamo i nostri piedi, lo spazio che occupiamo, la superficie che percorriamo, è anche il contenitore che tutto fa accadere e finire. Un tema tanto semplice quanto complesso che abbraccia ogni cosa.” Esordisce così Gloria Bortolussi, nel descrivere l’esperienza di Terramater, una collettiva di artisti nazionali, a cui è stato posto il compito di parlare della Terra, nelle sue accezioni più vaste, e il luogo che ha ospitato tale riflessione merita un breve racconto.
Alvisopoli, piccola frazione del comune di Fossalta di Portogruaro nasce nell’Ottocento quando il conte Alvise Mocenigo, divenuto proprietario dei terreni della zone, decise la costruzione di una città ideale che portasse il suo nome. L’iniziativa fu certamente innovativa: a differenza di casi analoghi, Mocenigo progettò un centro abitato dotato di servizi che rendessero la comunità autosufficiente. Pertanto, alla tradizionale attività agricola (potenziata attraverso l’introduzione di tecniche innovative, come quelle riguardanti il riso e la barbabietola) tentò di affiancare il settore industriale (in particolare quello tessile) che potesse basarsi sulle risorse prodotte in loco.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
La campagna fu riorganizzata e bonificata, alternando aree asciutte a terreni umidi, regolamentati da un’efficiente sistema di canali tuttora funzionante. Per quanto riguarda l’urbanistica, furono costruiti edifici ad uso residenziale (si possono ancora notare le basse casette dei contadini) e industriale (barchesse, risiera, fornace, mulino). A ciò si aggiunsero le attività culturali, con la fondazione di una celebre tipografia che funzionò ad Alvisopoli sino al 1814, allorché fu trasferita a Venezia.
Ad oggi Alvisopoli è una piccola frazione, di altresì piccolo comune della provincia di Venezia, confinante con il Friuli Venezia Giulia, e la villa ha perso le sue funzioni lavorative, per essere acquisita dall’ATER, e ospitando una serie di nucli familiari di diverse etnie ed estrazioni sociali.
Nel tentativo dell’amministrazione comunale, di non abbandonare a se stessa tale realtà, si è deciso di usare gli ampi spazi che il complesso offre per attività culturali atte a evitare l’isolazionismo e la ghettizazione degli abitanti stranieri, e il coinvolgimento in iniziative di carattere artistico.TERRAMATER ha fatto dunque parte di un ciclo di attività che hanno coinvolto un luogo così significativo per la storia del territorio. La collettiva è stata dunque un occasione, la seconda tappa di un percorso iniziato nel 2011 con ACQUAMATER. Gli elementi primordiali sono posti sotto una lente di ingrandimento: ognuno di essi non può®esistere senza l’altro. In questaoccasione, si è scelto di lasciare libertà agli artisti di riverberare attraverso il loro mondo la riflessione su quella che è una singola parola, in fondo.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
PALLUOL
Come detto in precedenza la sfida, come architetti, di partecipare a una collettiva di artisti ha rappresentato uno stimolo, da un lato progettuale, dall’altro ad esplorare le possibilità di una progettazione partecipata in un luogo dalle dinamiche complesse come il quartiere di Alvisopoli. Il primo impatto che abbiamo avuto con il contesto di intervento si è concentrato principalmente sull’aspetto sociale del luogo: il complesso di Villa Mocenigo, oggi di proprietà dell’Ater, incarna l’esempio di una ghettizzazione mascherata da intervento sociale, dove la multi etnicità degli abitanti non trova nello spazio del vivere il terreno di confronto e di crescita che ci si auspicherebbe. Il disagio che deriva dal vivere in una frazione così isolata, nel tessuto della bassa pianura del veneto orientale, distante da servizi di ogni genere, e da arterie di comunicazioni principali, ha portato, soprattutto nella fascia di abitanti più giovani a costruire un contesto ludico scarno e privo di strumenti atti a favorirne l’integrazione. Nonostante ciò la curiosità mostrata dagli abitanti verso l’iniziativa è stata una sorpresa per tutti noi: infatti, lontani dai preconcetti, dalla logica della critica ad ogni costo, i residenti del complesso si sono mostrati subito aperti e disponibili a partecipare attivamente alla costruzione della collettiva, come se comprendessero l’importanza di un’iniziativa che avrebbe potuto portare la piccola realtà in cui vivono, a centro di una piccola galassia culturale.
Partendo da questo presupposto, è stato più facile concentrarsi sul tema e che sulla composizione stessa dell’oggetto che avremo studiato per l’occasione. Come un enorme tela su cui dipingere, il piazzale di villa Mocenigo poteva accogliere la nostra sperimentazione; infatti, mentre gli artisti erano invitati a portare opere compiute in precedenza, avendo una relazione (a volte forzata) con il tema della collettiva, la nostra proposta doveva cimentarsi con un contesto fino ad allora conosciuto marginalmente.
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L’errante genius loci dipinto da Ippolito Pizzetti in questo caso ha deciso di posarsi tra la barchessa di destra e le case popolari, come a voler ricucire uno strappo, come a ricordarci che cultura non è un concetto elitario, che il paesaggio esiste in quanto percepito da chi lo vive. Il progetto dunque si è spinto sul concetto del muro, elemento architettonico gravitazionale per antonomasia, il cui rapporto con la terra è imprescindibile, e la cui connotazione storica, come elemento di divisione dei popoli, poteva essere sfruttata come paradigma del nostro progetto. Dunque un muro di 30 metri, composto interamente con materiali industriali che a fine progetto sarebbero tornati ai rispettivi proprietari, ci sembrò la strada da percorrere, da un lato per la forza del segno progettuale, dall’altro per l’economicità e la reversibilità del progetto.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
Palluol è stato dunque il tentativo frammentare l’idea del muro, per trasformarlo in un espediente ludico, una macchina del gioco, e nel contempo attraverso rotture e aperture, cambiare il paesaggio percepito. Infatti le nicchie che sono state ricavate, se per un verso rispondevano a una logica prettamente funzionalista, ovvero trasformarsi in sedute, tavoli o altri elementi della sosta, dall’altro aprivano finestre sugli elementi costitutivi del paesaggio circostante, indirizzando lo sguardo, verso quegli elementi ormai facenti parte della quotidianità. Lo scopo di palluol, oltre che a nuovo spazio del gioco e del diaologo, ebbe lo scopo più nobile di disegnare un nuovo spazio urbano, nuovi sguardi, nuove prospettive; la massa gravitazionale propria dell’intervento, avrebbe dovuto fungere da polo di attrazione.
© MASU studio . Published on January 12, 2015.
Da un punto di vista compositivo, l’idea di un segno che cercasse di penetrare la barchessa ebbe lo scopo di scardinare l’impianto ortogonale del lotto e di fungere da invito all’ingresso della mostra, rompendo la simmetria della facciata caratterizzata dalle due barchesse.
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L’autocostuzione è stato elemento imprescindibile dell’opera, in quanto era nostro desiderio far partecipare attivamente gli abitanti alla realizzazione, come primo step di avvicinamento al contesto della manifestazione. Per quanto riguarda l’aspetto sociale, la riuscita dell’elemento è determinata dalla compresenza di attori, tra cui giovani volontari, associazioni teatrali e didattiche che si sono alternate nel corso dell’esperienza, a sfruttare l’elemento come base per laboratori e performance.